non mi piace l’età adulta

Me ne avevano parlato, in maniera vaga, come di qualcosa che sarebbe arrivata inesorabilmente anche nella mia vita. Quest’inderteminatezza di dettagli, mista a una specie di romanticizzazione personale coltivata con i libri letti e i film visti, aveva dunque creato in me non dico una convinzione, ma quantomeno la lontana idea che l’età adulta non sarebbe stato uno spauracchio, un tunnel senza fine da cui si viene risucchiati non si sa bene come e non si sa bene quando. Non so di preciso quando sia arrivata per me: di certo non quando ho lasciato casa dei miei genitori per trasferirmi a Bergamo; non quando ho iniziato a guadagnare i primi stipendi che mi avrebbero consentito di pagare affitto o bollette; neppure – sembra assurdo, lo so – quando ho comprato casa, mi sono recata in banca dove ho firmato un contratto di mutuo. Sento, a esser sinceri, di essere entrata in maniera definitiva nell’età adulta quando ho capito di aver inutilmente coltivato sogni di gloria che non avrebbero mai visto la luce, quando ho capito che non avrei mai trovato un datore di lavoro competente e rispettoso al contempo, quando ho sentito il fallimento delle mie scelte come un dolore che non avrei mai perso negli anni.

Questo fatalismo, che fa un po’ parte di un carattere tendente al melodramma ma anche di uno sguardo fin troppo lucido sulle cose, si è manifestato in questi giorni al punto da spingermi a riesumare questo spazio virtuale, ormai abbandonato in attesa di momenti migliori che stentano ad arrivare. Sono ben consapevole che la storia dell’umanità è piena di gente che si è reinventata a ogni età, anche a novant’anni; non mi è di consolazione saperlo, però, se a 34 anni sento di non avere nulla in mano: sono crollate le convinzioni sulle mie capacità, che ora mi appaiono inutili e inconcludenti, sulle possibilità di sentirmi realizzata come professionista e come donna. Complice, in questo, la decisione lo scorso aprile di lasciare un lavoro che ti voleva performante a ogni ora del giorno come ufficio stampa – in cui pure ritenevo di esser brava – per inseguire il sogno di fare la libraia. Sogno che si è infranto nel confronto con la realtà, che ha le sue regole, i suoi obiettivi, una realtà di cui tu sei una parte infinitesimale, totalmente inutile.

palazzo

E di inutilità, in fondo, sento di dover parlare: una sensazione che con l’età adulta si è amplificata, invece di farsi piccola. Sentire di non avere uno scopo, per sé e per gli altri, commisurare anzi il proprio valore in funzione del grado di attenzione che gli altri ti rivolgono, è l’inizio di un loop pericoloso in cui sono purtroppo entrata e da cui temo di poter uscire soltanto con l’aiuto di terzi. In questo sgangherato tentativo di dare forma a un malessere che difatto sta inibendo ogni aspetto della mia vita, aggiungo per concludere che il senso di smarrimento, mi auguro, non è definitivo e che sarà sorpassato da nuove e più positive consapevolezze.

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